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Tamerisco XXII seconda parte

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XXII

 

Discorsi sulla libertà



Quel pomeriggio squillò il cellulare, tre brevi squilli secchi. Credevo che fosse Adelina, invece comparve un numero sconosciuto.

Mi vestii rapidamente e uscii. Avevo un presentimento: era uno di quei momenti di lucidità in cui il cervello, o lo spirito se preferite, ha la capacità di decifrare segni impercettibili, di collegare eventi insignificanti, di cogliere sensazioni sottili, tanto sottili da essere trasparenti come fantasmi. Tutto viene decodificato, letto, tradotto in pochi pensieri improbabili, mediante i quali tuttavia raggiungiamo all’istante l’assoluta certezza. M’incamminai diritto alla stazione. Sul marciapiede, che in quel tratto era stretto e sconnesso e non lasciava spazio a più di una persona, vidi avanzare verso di me una coppia: lei camminava sul ciglio, salendo e scendendo da esso, per lasciare spazio a lui che parlava gesticolando animatamente. Quando mi furono vicino non poterono fare a meno di vedermi, dato che in tre su quel marciapiede non si poteva passare. Mi veniva da ridere: mi pareva che la situazione potesse essere imbarazzante, ma il piacere di incontrarli era tanto maggiore in quanto ero uscito da casa con un presentimento di disgrazia. Quando si accorsero di me, Lucia salutò arrossendo leggermente e abbozzando un sorriso appena percettibile tra le labbra contratte nello sforzo di seguire i ragionamenti sempre complessi di Michele.Tango sollevò gli occhi da terra e parve stupito di vedermi.

“Un detective che si rispetti non deve meravigliarsi mai di niente, deve stare sempre in guardia, guardare lontano!” dissi dandogli una pacca sulla spalla che lui vigorosamente restituì. Andavano al palazzo delle mostre ad assistere alla conferenza di un criminologo illustre. Michele portava la cravatta, cosa mai accaduta da quando lo conoscevo. Lucia indossava un vestitino bianco che faceva risaltare le forme vigorose del corpo e si perdeva nella carnagione bianchissima delle braccia e del viso. Mi domandarono dove fossi diretto e se non volessi unirmi a loro. Risposi che dovevo trovare un amico, che anzi ero in ritardo e dovevo affrettarmi, così li salutai e proseguii per la mia strada. In realtà non sapevo dove fossi diretto. Sentivo una corda di violino tendersi nel cervello. “Se si spezza muoio, forse sta per scoppiare una vena dentro la testa” pensai. Deviai per Via Petrarca e mi fermai all’Aurora. Non sapendo cosa prendere, ordinai un caffè decaffeinato. Vicino al banco tre ragazzi, dovevano essere studenti del liceo, discutevano animatamente. Quello che sembrava il più anziano, un primo della classe, il tipo dell’intellettuale accidioso che vorrebbe sentenziare su tutto e su tutti, parlava con voce stridula, scandendo le parole a sottolineare l’essenzialità e la necessità di ognuna di esse: “ La libertà è un valore politico. E’ la polis, la società, che procura la libertà ai suoi membri. Certamente dovete ammettere che la libertà di un Ateniese non è la stessa di quella di uno Spartano o di un Tebano. Tuttavia nessuno dei tre penserà di non essere libero! Sulla porta del campo di sterminio di Auschwitz, mi pare, era scritto:- Il lavoro ci rende liberi –  per sfregio, s’intende. Tuttavia quanti capitalisti vorrebbero scriverlo a grandi lettere sulla porta delle loro aziende, quante multinazionali. Eppure l’oggetto di questa proposizione cambia secondo le situazioni: nei paesi sottosviluppati il lavoro degli schiavi, affamati, pagati con un pugno di riso, rende liberi i padroni di fare soldi, quanti ne vogliono. Da noi, il lavoro degli immigrati, su cui pure sputiamo addosso, rende liberi gli autoctoni, gli indigeni, i civili, dai lavori più umili e degradanti. Forse, con un’enorme dose di buonismo, si può affermare che nella nostra civiltà il lavoro rende liberi i padroni e gli operai dal bisogno. Ma con questi salari da sopravvivenza, per quanto tempo ancora potremo andare avanti  a ripetere un simile luogo comune falso e ipocrita?” Si era accalorato e la voce era divenuta tagliente mentre menava la mano per l’aria, come se davanti a lui fosse radunata una folla di spettatori consenzienti, e non i due compagni che neppure lo seguivano nei ragionamenti, impazienti com’erano di dire la loro. L’orologio a cucù del signor Alfonso si era messo a suonare. Il suo canto sovrastava ogni voce imponendo una sospensione. L’uccelletto verde si dondolava sulle zampe come volesse spiccare il volo e non finiva più di mandare il suo verso canoro. Evidentemente il meccanismo si era inceppato e le dame e i cavalieri, appena affacciati dalla porta del castello, attendevano il loro turno di danza. Alfonso, che era il padrone dell’Aurora, si arrampicò su una sedia e sospinse delicatamente con le dita il volatile dentro la finestrella, così la musica del carillon poté cominciare e si diede il via alle danze delle coppie che volteggiavano intorno a se stesse e a un centro ideale, posto all’interno dell’orologio.

Ogni estate il signor Alfonso portava un trofeo dai suoi viaggi. Questo che pendeva sopra la vetrina dei liquori era un monumentale orologio della Baviera che male si accompagnava con l’eleganza del locale. Tuttavia era in quel luogo da tanto tempo che i clienti abituali, quando chiedevano l’ora, domandavano il tempo del signor Alfonso: un tempo assoluto, che sembrava scorrere indipendentemente dagli altri orologi.

Il ragazzo che era un po’ più basso del primo, con spalle larghe e robuste, una mascella volitiva in un viso perbene, come ce ne sono tanti nell’Azione Cattolica, disse che la libertà è un valore spirituale, individuale, indipendente dalle situazioni contingenti, politiche o storiche. Si esprimeva con voce calma e gradevole. Si capiva che era abituato ai dibattiti in pubblico. Diceva che era responsabilità dell’individuo privarsi della libertà, divenire servo. Pure un galeotto in prigione poteva essere libero, così pure uno schiavo. E quando questi citò lo schiavo di San Paolo, il ragazzo che aveva parlato prima, che dava sempre più segni di insofferenza, sbottò con rabbia: “Così tu giustifichi la tirannia. Nessuno ti ruba la libertà, quindi non esistono i tiranni, non esiste niente, un bel niente per te!” e gli andò di traverso la saliva e cominciò a tossire e sputacchiare. Il barista mi diede un’occhiata di complice disapprovazione. Il terzo ragazzo, vestito di nero, pallido come raramente se ne vede nei mesi d’estate, approfittò di quella pausa forzata per dire la sua. In realtà la sua opinione non sembrava interessare minimamente ad alcuno. Disse che tutti siamo schiavi della Felicità, con l’effe maiuscola precisò, o meglio del desiderio di essa, che si mostra a tratti e poi scompare e i suoi bagliori sono come il luccichio di certe esche per i grossi pesci. E noi altri abbocchiamo all’amo. La Felicità ci fa suoi schiavi e lentamente ci divora  privandoci della dignità di uomini e perfino dell’ intelletto. Noi stupidamente consenzienti ci inginocchiamo dinanzi a lei. Come si spiegherebbe infatti che per quelle sordidezze che riempiono le vetrine dei negozi e dei supermercati, per quei falsi mondi artificiali, accettiamo di affamare e di uccidere i nostri simili che vivono in paesi non tanto lontani, a poche ore d’aereo? Facendo finta di non sapere, di non vedere…” Evidentemente il ragazzo faceva parte di quei gruppi di pallidi malinconici per i quali la felicità e l’allegria sono una colpa, e si proibiscono di ridere e gioire, godendo comunque del piacere che procura la tristezza e l’autocommiserazione. Avevo sorseggiato il caffè lentamente, curioso di ascoltare i loro discorsi: gli stessi discorsi che io facevo con i compagni di università quando ero giovane. E quell’espressione “Quando ero giovane”, pensata all’età di 24 anni, fu come se il tempo mi rovesciasse addosso tutta la sabbia della sua clessidra. Incolpai il lavoro in biblioteca troppo tristemente routinario. Me ne andai infine portandomi dentro la sua stupida malinconia.






 



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